1575: IL SATIRO

                 (The Satyr, Arkham House 1948, Or. 1931)

 

Raoul, Conte di La Frênaie, per natura era il meno sospettoso dei mariti. L'assenza di sospetti, in parte, forse, non era altro che mancanza di immaginazione e, per il resto, senza dubbio era dovuta all'intorpidimento delle facoltà di osservazione provocato dai pesanti vini dell'Averoigne. Ad ogni modo, non aveva mai notato nulla di sconveniente nell'amicizia della moglie Adele con Oliviero di Montoir, un giovane poeta che, a suo tempo, avrebbe potuto rivaleggiare con Ronsard, come uno di più brillanti talenti della Pléiade, se non fosse stato per una imprevista, ma fatale circostanza.

Per la verità, il Conte si era sentito molto più orgoglioso delle altre volte, per l'interesse dimostrato verso la Contessa da quel giovane bello ed erudito, che si era già inumidito le labbra alla fonte di Elicona e cominciava a essere conosciuto non soltanto in Averoigne, ma anche nelle altre province, per le sue canzoni e le sue ballate. Né dava noia a Raoul il fatto che molte di quelle canzoni e ballate fossero apertamente dedicate al fascino di Adele e facessero chiaro riferimento alle sue trecce color vino ambrato, agli occhi dorati, e a parecchi altri particolari non meno seducenti ed altrettanto essenziali alla perfezione femminile.

Il Conte non pretendeva di capire la poesia e, come molti altri, la considerava qualcosa di diverso dal senso comune e dai rapporti mondani, e le sue facoltà percettive si paralizzavano del tutto, quando dovevano affrontare qualsiasi composizione metrica o in versi rimati. Nel frattempo, autore e ballate si andavano facendo vieppiù impudenti.

Quell'anno, le nevi di un rigido inverno erano state spazzate via da una settimana di tiepido sereno, e la campagna si era ammantata di tenero verde e di gemme di crisolito e di crisopazio della incipiente primavera. Oliviero veniva sempre più spesso al castello di La Frênaie e molto spesso si trovava solo con Adele, perché dovevano parlare di cose che andavano molto al di là dell'interesse e della comprensione del Conte.

E, a volte, andavano a passeggiare per la foresta, nelle vicinanze del castello, quella foresta che si stendeva come un mare di verde primaverile fin quasi sotto le mura grigie ed il ponte levatoio, e che impregnava l'aria tranquilla con il profumo dei primi fiori di campo delle sue radure baciate dal tiepido sole. Inutile dire che i pettegolezzi e le insinuazioni non mancavano, ma erano discreti e fuori portata dell'udito di Raoul, di Adele e di Oliviero.

Stando così le cose, non si riesce a comprendere perché, all'improvviso, il Conte cominciasse a preoccuparsi dell'integrità del suo onore di marito. Forse, in qualche breve intervallo fra la caccia e le libagioni, alle quali dedicava quasi tutta la sua esistenza, si era reso conto che la moglie si stava facendo più giovane e più bella e che fioriva come sboccia una donna, unicamente alla magica luce del sole dell'amore.

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Che avesse sorpreso qualche sguardo di ardente ed affettuosa intesa fra Adele e Oliviero, o fosse stato l'influsso della primavera precoce che gli aveva snebbiato il cervello intorpidito dal vino, facendo emergere oscure sensazioni di pensieri e di emozioni dimenticate, fatto sta che ebbe un lampo di profonda comprensione.

Ad ogni buon conto fu molto seccato, quel pomeriggio dei primi di aprile, tornando da Vyones, dove si era recato per affari, nell'apprendere dai domestici che la signora Contessa o Oliviero di Montoir erano usciti da poco, per una passeggiata nel bosco. La sua espressione ottusa si turbò un poco. Parve riflettere un momento poi disse:

«Che direzione hanno preso? Devo vedere subito la Contessa».

Avuta l'indicazione richiesta, uscì, incamminandosi lentamente lungo il sentiero, finché non fu più visibile dal castello. Quindi affrettò il passo e cominciò ad accarezzare l'impugnatura della spada, man mano che avanzava nel fitto del bosco.

«Ho un po' di paura, Oliviero. Vogliamo ancora proseguire?»

Adele e Oliviero erano andati oltre i limiti delle loro solite escursioni, penetrando in una parte della foresta dell'Averoigne, dove gli alberi erano più vecchi e più alti di tutti gli altri.

Si diceva che qualcosa di quelle querce gigantesche risalisse ai tempi pagani. La gente che transitava sotto quelle fronde era ben poca e per secoli, su quelle piante, gli abitanti delle regione avevano tramandato strani racconti e cupe leggende. Erano state viste cose che rappresentavano un affronto alla scienza e una bestemmia contro la religione, e si diceva che influssi demoniaci fossero in attesa di coloro che osavano avventurarsi fra quelle radure e quelle macchie

antichissime.

Le credenze variavano e le leggende si mantenevano nel vago, ma tutti concordavano nel dire che il bosco era infestato da qualche entità ostile all'uomo, qualche primordiale spirito maligno, molto più antico di Cristo e di Satana. Panico, pazzia, possessione demoniaca o paurose passioni sfrenate che portavano alla dannazione eterna, costituivano il castigo di chiunque profanasse il dominio di quella entità. C'erano anche alcuni che sussurravano chi fosse lo spirito, che raccontavano storie incredibili sulla sua vera natura e ne descrivevano l'aspetto, ma fole del genere non erano cibi per le orecchie dei devoti cristiani.

«Di grazia, procediamo ancora un poco», pregò Oliviero. «Girate lo sguardo attorno a voi, Madame, ed osservate come questi antichissimi alberi si sono rivestiti di smeraldo alle brezze dell'aprile e come gioiscono di gaudio purissimo al ritorno del sole.»

«Però la gente racconta certe storie... Oliviero...»

«Sono solo storie per spaventare i bambini. Andiamo avanti. Non c'è nulla da temere, e tanta bellezza che incanta...»

E il poeta aveva ragione: le querce dai tronchi giganteschi e gli antichissimi faggi davano una sensazione  di  freschezza  e di gioventù, sfoggiando il nuovo

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fogliame. La foresta ostentava un aspetto di esuberanza e di gaiezza primaverile, ed era veramente difficile prestare orecchio alle antiche superstizioni ed alle leggende. La giornata stessa aveva quella particolare atmosfera dei momenti nei quali i cuori che avvertono l'insorgere di un inconfessato amore, sono propensi a vagare senza meta... all'infinito.

Così, dopo alcune esitazioni tutte femminili, e molte assicurazioni da parte di Oliviero, la Contessa si lasciò persuadere e proseguirono.

Sul sentiero che stavano seguendo non si notavano tracce umane, ma soltanto di animali, le quali tracce, però, formavano una specie di agevole pista nel folto del bosco del favoloso demone. I rami penduli parevano avvolgerli in un abbraccio di tenero verde e invitarli a proseguire; poi, i raggi dorati del sole screziavano gli alti alberi, formando come una aureola di luce attorno ai gigli seminascosti, che spuntavano fra l'ombroso intrico di enormi radici. Le piante erano contorte e nocchierute, ricoperte da cortecce secolari, ingobbite e deformate per la crescita di un numero di anni ormai incalcolabile, ma generavano un'impressione di antiche credenze e di pace amichevole, Adele esprimeva la contentezza e l'ammirazione con dei gridolini di gioia e, tanto lei quanto Oliviero, non avevano alcuna impressione di qualcosa di sinistro o di strano, in quell'armonia di incomparabile bellezza e di intatta originalità che offriva la vetusta foresta.

«Non è meraviglioso?», domandò Oliviero. «È di questi alberi e di questi fiori così puri che dovremmo aver timore?»

Adele sorrise, ma non rispose. Nell'alone di tiepido sole che li inondava, ora i due amanti si fissavano negli occhi con una nuova e più travolgente passione. C'era uno strano profumo che impregnava l'aria quasi immobile e che recava intense fragranze provenienti da qualche fonte invisibile... un aroma che sembrava parlare insidiosamente di amore, di languore e di abbandono totale. Non avrebbero assolutamente potuto dire da quali fiori provenisse, perché, tutto a un tratto, si trovarono come circondati da un'infinità di cespugli sconosciuti, inghirlandati di grandi campanule bianche e rosate, con i petali ricurvi e serpeggianti, o simili a cuori rossotenero, trafitti da ferite rosso-sangue.

Scambiandosi gli sguardi, si videro come avvolti in un improvviso divampare di fiamme e sentirono il sangue pulsare più in fretta, come se avessero bevuto un filtro incantato. Il medesimo pensiero era chiaramente manifesto tanto nell'audace ardore degli occhi di Oliviero, quanto nel modesto rossore comparso sulla guance della Contessa. L'amore custodito così a lungo nell'intimo e che nessuno di due, fino a quel momento, aveva mai dichiarato apertamente, urgeva irrefrenabile nelle vene di entrambi. Ripresero ad avanzare, silenziosi e assorti con una sensazione di imbarazzo e di riserbo.

Non osavano guardarsi l'un l'altro e non avevano occhi per notare i cambiamenti del bosco, per cui non si accorsero delle pazzesche, oscene deformità, dei tronchi grigi che li fiancheggiavano o degli obbrobriosi e mostruosi funghi  che  si ergevano nell'ombra, con  il loro pallore cadaverico a

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chiazze, o dei rossi fiori che si esibivano al sole. I due amanti erano oppressi dal desiderio, come drogati dalla mandragora e dalla passione; e tutto ciò andava al di là dei loro corpi, dei loro cuori e del pulsare del sangue in delirio: era più vago di un sogno.

Il bosco si andava facendo più folto, e i rami ad arco sulle loro teste, una trama d'ombre sempre più compatta. Occhi di animali selvatici affioravano dalle tane nascoste con bagliori di ferino violetto e di freddo, selvaggio berillio, e l'umido sentore di acque stagnanti, reso più acuto da quello delle foglie dell'autunno precedente, andava incontro ad Adele e Oliviero, smorzando un poco la pericolosa malìa che li possedeva.

Si fermarono sulla sponda sassosa di uno stagno, nel quale gli ontani secolari rispecchiavano le cime immobili, come per fissare in quell'acqua l'attonito aspetto di un cosmico terrore. E, tra i rami più bassi degli ontani, in una cornice di foglie primaverili, videro il Volto che li fissava con invereconda bramosia.

L'apparizione era incredibile e, mentre trattenevano il fiato, non si convincevano di vederla veramente. Due corna in una massa cespugliosa di capelli aridi e simili al vello degli animali, al di sopra di un volto semiumano, con due occhi a mandorla, ridotti a non più di una fessura, e una bocca con le zanne e la barba di setole, come un cinghiale. Quel Volto denotava vecchiaia al di là di ogni possibilità di computo, e i lineamenti e le rughe recavano le tracce inconfondibili di anni di concupiscenza, mentre lo sguardo era pregno di tutta la malignità, la corruzione e la crudeltà raccolte nel lento e lungo decorso dei millenni. Era il Volto di Pan, uscito dal segreto del bosco per sorprendere gli ignari disturbatori.

Adele e Oliviero, ricordando le antiche leggende, furono sopraffatti da una terrore da incubo. La malìa della incombente passione era svanita di colpo e il fremito di desiderio aveva abbandonato i loro sensi. Come ridestandosi da un sogno profondo, scorsero il Volto e, pur nel furioso pulsare del sangue, udirono il selvaggio, maligno, diabolico e pauroso cachinno... poi la visione sparì fra i cespugli.

Rabbrividendo, Adele si lasciò cadere, per la prima volta, fra le braccia dell'amante.

«L'hai visto?», domandò, con un filo di voce.

Oliviero la strinse a sé. In quel delizioso abbraccio, la «cosa» orribile che avevano veduto, in un certo qual senso, tornò a sembrare improbabile ed irreale. Quel luogo doveva essere teatro di un duplice incantesimo che aveva provocato e placato il suo orrore, ma non avrebbe potuto dire se si fosse trattato di un'allucinazione momentanea, una fantasia creata dal sole tra le foglie degli ontani o del demonio che, secondo le leggende, abitava nell'Averoigne, oppure se si fosse spaventato senza motivo.

Comunque, di qualunque cosa si trattasse, doveva ringraziare quell'apparizione, di qualunque cosa si trattasse, perché aveva fatto cadere Adele tra le sue braccia.

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E adesso non riusciva a pensare a nient'altro che alla vicinanza di quella calda bocca deliziosa che aveva desiderato così a lungo. Cominciò a tranquillizzarla, a fugare i suoi timori, a dirle che non aveva visto nulla, e tutte quelle assicurazioni finirono in un'ardente protesta di amore.

La baciò... e scordarono la visione del satiro.

Si erano sdraiati su un tappeto di muschio dorato, dove i raggi del sole piovevano attraverso un unico interstizio del denso fogliame, quando Raoul li trovò. Si era avvicinato con la spada sguainata, per osservare da vicino quell'illecito amore, ma i due amanti non lo avevano né visto né udito.

Stava per slanciarsi sugli adulteri e trafiggerli con un unico colpo, quando accadde qualcosa di imprevisto e di imprevedibile. Con una rapidità veramente soprannaturale, una creatura con la chioma bruna, un essere non del tutto umano e non del tutto animalesco - un diabolico miscuglio di entrambe le nature - balzò fuori dai rami degli ontani e strappò Adele dall'abbraccio dell'amante.

Oliviero e Raoul lo videro soltanto in un lampo e né l'uno né l'altro, in seguito, avrebbero potuto darne una descrizione. Ma il Volto che aveva sbirciato gli amanti dal fogliame, e le sue gambe e il corpo pelosi, erano quelli di una creatura delle antiche leggende. E sparì, così come era comparso, portandosi via la donna fra le braccia: le grida della malcapitata Contessa furono superate dallo scrosciare di una pazzesca e diabolica risata.

Le urla e il cachinno si persero lontano, in qualche remoto recesso della silente verde foresta, e non si udì più nulla.

Raoul e Oliviero non poterono fare altro che guardarsi l'un l'altro nel più completo stupore.

 

FINE

(Trad. Teobaldo del Tanaro)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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